Putin qui non può vincere
Putin qui non può vincere. Viaggio nel mondo degli artisti ucraini, dei musicisti, artisti visivi, direttori di case editrici, registi, pittori. Quarta puntata della WebSerie, Artisti in guerra. È presentato un reportage di Gianluigi Ricuperati su La Stampa del 6 aprile 2023 (1913 parole; tempo di lettura circa 10 minuti.).
LVIV – KYIV – DONETSK. La guerra è sui confini. La guerra è nei villaggi. La guerra è lungo le strade. Ma la guerra è anche nella testa, nei sogni, nell’antro dei cuori. Quando entriamo in Ucraina per raccontare una guerra diversa, intima, interiore, nella parte nascosta della vita, l’I-phone sceglie “Christmas in February” di Lou Reed, 1989, una canzone dolente sui reduci della «guerra non vinta», quando gli americani erano dalla parte sbagliata della Storia. Oggi gli americani sono dalla parte giusta, ma il narratore del pezzo di Lou Reed, parlando dei Vietcong, cantava versi che si incidono come ferite sull’oggi: «erano fieri e senza paura / ecco il prezzo che paghi quando invadi / Natale a Febbraio». Leggi di più
Oggi gli americani sono dalla parte giusta, ma il narratore del pezzo di Lou Reed, parlando dei Vietcong, cantava versi che si incidono come ferite sull’oggi: «erano fieri e senza paura / ecco il prezzo che paghi quando invadi / Natale a Febbraio». Vi ricorda qualcosa ? Ci ricorda qualcosa. Ormai siamo ben oltre l’anniversario dell’invasione, e nulla sembra promettere tregua. Siamo ad aprile però in Ucraina è un po’ sempre Febbraio: Natale a Febbraio è un concetto inquietante. Vivere sotto la minaccia continua di qualcosa di brutto e senza pietà è più di un concetto, è peggio di un incubo ricorrente: per milioni di ucraini è la sveglia ricorrente: tutti gli ucraini sono diventati artisti del vivere in tempo di guerra, uno status indesiderato e tragico, ma pur sempre uno status di vita interiore.
Siamo qui per incontrare sei persone collegate tra loro da un solo grado di separazione e cercheremo di chiedere loro cosa si prova a essere umani in questo momento, come si mantengono, quali sono i filamenti dei loro sogni notturni, cosa sta accadendo davvero nella loro vita interiore.
Avremmo potuto farlo facilmente on line, ma per essere dotati di una vibrante verità su una situazione infernale, è necessario condividere un po’ del rischio, respirare un po’ dell’inferno. E le prime ore in Ucraina, a dire il vero, non hanno nulla dell’Inferno. Perché persino in una guerra devastante ci sono quadranti di dolcezza, tempo senza frizioni, ristoranti accoglienti, frivolezze possibili.
La prima persona che incontro è nata a Rimini, non qui, ma ha messo il suo corpo e la sua vita a difesa delle istituzioni italiane in questo paese, quando avrebbe potuto tranquillamente – nella settimana precedente, ben avvertito dai servizi di sicurezza – scappare come certi comandanti di navi che ben conosciamo: Edoardo Crisafulli, direttore dell’Istituto di Cultura italiano a Kyiv, ora spostato come antenna diplomatica a Leopoli, Lviv, non ha nulla del diplomatico di carriera a sangue freddo e parole smagliate: scrittore, attivista socialista-liberale come non ce ne sono più. «Non sono certo un eroe, anzi, la verità è che avevamo degli ospiti italiani per uno spettacolo, ed è fuori discussione che persino nel caos e nel pericolo il nostro dovere sia difendere le istituzioni e gli italiani all’estero. Ho solo fatto il mio dovere. L’eroismo è del popolo ucraino e del loro governo, esercito. Quello è ciò che ho visto in dodici mesi difficilissimi ma importanti’». Gli domando, mentre camminiamo in una Lviv irreale, poco prima del silenzio buio del coprifuoco, se questi mesi lo hanno cambiato. «Per sempre. Sono cose che paghi, in termini di salute, di pensieri, di pace interiore. Ma è giusto prepararsi e dare una mano. A volte vai alle poste e vedi una impiegata prima sorridente e tranquilla rispondere al telefono improvvisamente e poi scoppiare in urla e lacrime, aveva appena saputo che suo padre o suo fratello erano morti al fronte. Cose così sono successe con una cadenza terribile. Ti cambiano dentro».
Quando ho conosciuto Crisafulli, ero con Anastasia Stovbyr, bravissima pianista Ucraina trentenne che vive in Italia, che mi ha messo in contatto con una ragazza sua coetanea della quale mi aveva inviato una foto stupenda, si era sposata con il fidanzato questo aprile, sul fronte, tra tute mimetiche e mazzi di fiori – ora la incontro a Kyiv. Si chiama Alina, e adesso ha un pancione di sette mesi almeno. Le domando se il marito è ancora al fronte orientale: «Ci parliamo tutte le sere e messaggiamo tutto il giorno. quando è direttamente al fronte tutto dipende dalla sua capacità di chiamarmi… molto probabilmente, è una telefonata di mezzo minuto “va tutto bene, ti amo” una volta ogni tre giorni». Parliamo di arte, che il grande pittore Gerard Richter ha definito «la più alta forma di Speranza». «Per me che sono incinta, la nuova vita che sto dando è la più grande forma di speranza. I miei sogni sono cambiati dal 24 febbraio 2022, come i sogni di ogni ucraino, credo… Ho iniziato ad apprezzare di più la vita. Durante questo anno di guerra ci siamo sposati, sono rimasta incinta, stiamo pianificando il nostro futuro con una chiara comprensione di ciò che desideriamo: la pace e l’indipendenza dell’Ucraina».
Alina fino ad ora ha lavorato alla croce rossa di Poltava, nel centro-est, ma prima aveva fatto la cuoca in una pizzeria a Kyiv, a pochi isolati dal caffè dove incontrerò le prossime due persone straordinarie, sotto un cielo questa volta bianchissimo, Olena Koncharuk, e suo marito. Lei è la direttrice del Dovzhenko Film Institute di Kyiv, ente che archivia e promuove la settima arte nel paese e fuori. Anche suo marito, Andrij, lavora nella cultura: ha fondato la casa editrice letteraria Luta Sprava dopo il Maidan, vero e proprio big bang psichico e politico della loro generazione. Quando l’avevo vista a Madrid, a fine novembre, per l’apertura della mostra sui capolavori ucraini ospitata dal Museo Thyssen-Bornemitsa, mi aveva detto che era preoccupata perché da qualche giorno non aveva notizie di suo marito e suo cognato, due professionisti cinquantenni che proprio un anno fa non ci hanno pensato due volte e hanno lasciato tutto per andare a combattere. Ora il marito è con lei, davanti a me, in un caffè abbastanza affollato nel quale potrebbe suonare da un momento all’altro la consueta sirena d’allarme. Si era arruolato con suo fratello, e ha fatto vita da trincea con temperature sotto i 10 gradi, lunghi giorni e lunghissime notti all’aperto. «E la più interessante avventura della mia vita. Messe da parte le paure, le cose pratiche, rimane questo senso di una grande avventura da vivere: comincio o capire in modo diverso i confini del mio essere. È un modo diverso di relazionarsi con un grumo di terrori interni, che in qualche modo devi tenere insieme: ma poi arriva la botta di adrenalina e prendi le decisioni che devi prendere». Lui va in bagno e Olena si confida: «Per me questo uomo è una continua sorpresa. Qualche anno fa avevamo una relazione complicata, ma è sempre riuscito a sorprendermi. Avevo paura che tornasse completamente traumatizzato. Invece ha dimostrato una calma e una tranquillità e saggezza, anche per i suoi compagni. Prima era come un teenager. Prima tutti pensavano fosse il fratello minore. In qualche modo la guerra lo ha reso più equilibrato. Anche nei conflitti domestici rimane molto equilibrato. Erano esplosioni continue. Forse ha visto cose così brutte che ha messo in prospettiva i problemi relativi con i problemi assoluti». Quando torna gli domando com’erano i suoi sogni e sonni brevi al fronte del Lugansk: «I sogni in trincea sono molto chiari perché dormivamo all’aria aperta. Per scaldarci usiamo agenti chimici nelle scarpe e dentro i guanti. Non male per uno che nella vita aveva studiato filologia». Non riesco a esimermi da una domanda forse ovvia. «Non so se ho ucciso qualcuno, credo di sì, immagino di sì, i soldati russi erano lì a trenta metri, erano lì per uccidere noi. La guerra ti fa vedere tutto in bianco e nero. Il nostro gruppo avanzava subito dopo gli incursori, e il nostro compito era tenere la trincea. I movimenti, inclusi lo sparare, sono sempre molto rapidi, furiosi, e poi c’è una calma apparente. Posso dire che ho visto morire alcuni dei nostri, e di aver aiutato a portare il cadavere verso le linee più indietro. Per le famiglie riavere i corpi è tutto. Tieni conto che ero lì con mio fratello minore, sentivo il dovere di proteggerlo, sentivo il dovere di capirsi a distanza, di capirsi senza parlare, e magari trasferire questo potere agli altri della squadra».
Mentre parla arriva la donna che mi ha presentato a Olena la prima volta, a maggio, Galyna Grygorenko, quarantenne organizzatrice di musica e opera che nel corso della guerra è stata nominata vice-ministro del governo Zelensky. «La vita interiore del nostro popolo è in realtà molto orientata alla pace. Non vogliamo aggredire i nostri vicini, non vogliamo invadere, espanderci. Abbiamo dimostrato al mondo che sappiamo combattere e resistere ma sai qual è il cognome più diffuso in Ucraina?». Faccio no con il capo. «Melnyk. Significa mugnaio. Vogliamo solo essere indipendenti e stare sulla nostra terra, farla sbocciare». Olena interviene ancora: «La sfida del futuro sarà costruire, vivere gli aspetti più belli della vita: la bellezza, il gioco, la creazione».
Sul treno di ritorno verso l’Ovest, che è un altro magnifico intercity notturno ucraino – qualcuno dovrà scrivere una storia sociale e culturale di questi convogli affilati e oliati come meccanismi di precisione, infrastrutture materiali e morali della resistenza al caos russo – incontro proprio un esponente dell’Ucraina che gioca, in questo casi letteralmente, l’Ucraina che non ti aspetti: l’ultimo dei miei gradi in questo avvicinarsi rituale viaggiante si chiama Oleg, fa il media manager dello Shakhtar dki Donetsk, una delle squadre di calcio più forti d’Ucraina. Ha due figli, una moglie poliziotto e arriva da Cherniv, la città di confine prima quasi circondata poi abbandonata dalla primissima invasione russa.
Mi mostra foto di edifici sventrati: «Dopo aver visto questo non ci ho più pensato ancora, dovevo trovare un modo di portare i bambini e mia moglie fuori di lì. Saranno stati i primi dieci giorni di marzo. Non avevamo un’auto, e anche quando l’abbiamo trovata non c’era più gasolio in città: allora ho chiamato qualcuno che conosco dallo sponsor della nostra squadra e mi sono fatto mandare un buono per 75 litri, da ritirare direttamente dal distributore. Con un po’ di messaggi sui social siamo riusciti a incrociare le reciproche necessità: chi aveva la macchina non aveva benzina, mentre noi avevamo benzina ma non avevamo la macchina. Così siamo andati a Ivano-Franksov, e lì abbiamo passato le prime settimane». Gli chiedo quale sia il sentimento dominante dal febbraio scorso. «Io vengo da Donetsk. Non mi devi chiedere di quest’anno ma degli ultimi otto, perché il conflitto per me è iniziato nel 2014. I russi hanno cercato di scassarmi la vita due volte. Ora siamo preparati a tutto. Siamo tutti come tartarughe, con una pelle in più. Una corazza, più che una pelle». È sotto quella corazza? «Non so. Non importa. Andiamo avanti. Poi ci penseremo. Nessuno di noi vuole tornare indietro, vivere come quelli là. Vogliamo vivere come voi. Vogliamo vivere come a Rotterdam, Torino, Madrid. La vita in Russia per la maggior parte della gente non è vita».
Quando il treno taglierà il traguardo del confine e sarò di nuovo in campo di pace, in una zona che è protetta, grazie alla UE e alla Nato, ripenserò soprattutto a due cose. Lo sguardo vivo è determinato di Oleg, e gli sguardi altrettanto determinati, forse spiritati (strana parola, bellissima) ma ormai non più vivi, dei ragazzi che ho salutato al cimitero dei soldati a Lviv: Volodymyr Duh, 29 anni, Andrij Ivanočko, 31 anni, e tanti, troppi altri.
In Ucraina le anime migliori hanno fatto un passo avanti, e stanno in vita anche se sono morti: il loro Natale, il loro Febbraio, il loro Marzo a Aprile, e tutti gli altri mesi coincideranno – per sempre.