Prima parte del reportage di Domenico Quirico pubblicato su LaStampa del 8 febbraio 2016
È vero dunque: da questa guerra gli uomini sono stati vinti. E questa guerra è cattiva perché ha vinto gli uomini. Me ne accorgo attraversandola da Sud a Nord, quattrocento chilometri, da Damasco ad Aleppo. Questa guerra moderna, questa guerra di coltelli e fucili. Questa guerra civile.
Questa guerra mondiale. Questa guerra di raiss e di emiri. Questa guerra di petrolio e di dignità, di bambini e di killer senza bandiere. Questa guerra di gas e di droni. Questa guerra di bugie e di ambigue verità. Questa guerra in cui sembra non ci sia modo di uscire. Guerra di cui i sopravvissuti fanno ormai fatica a ricordare quale fu il primo giorno e cosa facevano allora.
È lei, capricciosa e vorace, che detta le regole, che si prende gioco anche di coloro che sono convinti di averle imposto il morso, di sapere quando vorranno dire basta e raggiungeranno, prima o poi, la vittoria.
TUTTI SCONFITTI
La vittoria. Inutile parola. Chi c’è dentro, e non finge, sente che ormai non ne uscirà più. Quando la guerra entra nelle città, le manipola come cera, ne modifica il profilo, abbassa l’arroganza dei suoi edifici più alti, la riduce a rovina di museo, cambia la vita, le abitudini, i percorsi quotidiani dei suoi sudditi, gli uomini, i cittadini un tempo liberi e orgogliosi di sé. E se gli uomini non hanno saputo vincere è perché c’è qualcosa di marcio.
Ad Aleppo, l’altra, quella che è rimasta sotto il governo di Bashar al-Assad, dopo tre anni. All’improvviso, superata una svolta della strada, mi sono ritrovato. In un sol colpo quella città santificata da un martirio collettivo ha occupato di nuovo i miei pensieri: un ricordo stretto che mi vestiva.
E poi subito, come tamburi rullanti una ritmica danza, il continuo rombo dell’artiglieria. Senza sosta. Io ero ancora vivo, dunque, mentre i suoi figli a migliaia sono morti, qui nelle strade o sulle vie di terra di mare che portano in Europa, fuggiaschi. Lo sapevo, lo avevo già provato: era una specie di vergogna come se i giorni di cui godevo li avessi strappati a quelli che avevo lasciato quaggiù.
IL QUARTIERE FANTASMA
Il quartiere di Salaheddin, per primo, era davanti a me. Un paese morto, morto come può essere morto un uomo, inerte vuoto finito. Lo si fosse potuto guardare dal di sopra, con una sola occhiata, si sarebbero visti gli interni di tutte le abitazioni, la pianta mozza degli appartamenti, le cucine, le stanze da letto. Le scale erano tutte crollate in montagne di polvere. Era proprio morto questo quartiere, era proprio un mucchio di ossa bianche, silenzioso, trapassato. E io l’ho visto in questi cinque anni morire.
Il fuoco dei cannoni sembra raddoppiare. I cieli hanno un tumulto di onde. Esplosioni lanciano illuminazioni livide, sfilate di granate a Est, esplosioni monumentali a Sud.
Già: quelli che ho lasciato quaggiù. E allora ho pensato che erano ancora lì sotto quel sepolcro di cemento. Viviamo sempre di antiche superstizioni, crediamo nelle ipotesi più infantili. Che altro abbiamo d’altronde da masticare, a meno di non fermare la immaginazione? Poiché erano ancora lì c’era anche la loro anima, doveva esserci. E queste anime hanno fame freddo e soffrono come quelli che sono ancora vivi. Qualcosa di terribilmente vivo, di terribilmente presente si levava da quel campo di morte rovine.
(Domenico Quirico è inviato de La Stampa. Nel 2013 è stato rapito in Siria e rilasciato dopo 5 mesi di prigionia)
LO SCONTRO DECISIVO
Eppure arrivo ad Aleppo mentre è iniziata una battaglia decisiva di questa guerra. E lo senti nell’attesa della gente. Me lo dice una giovane donna. Sto per lasciare Damasco e sa che vado a Nord, e il suo bel corpo carezzevole è così pieno di vita che ti pare di tenerla tra le braccia, così vicina che ne senti sulle palpebre il vestito come un velluto: «Noi siriani siamo pieni di vita, abbiano resistito. Siamo vivi. Non dovremmo esserne orgogliosi? Sentiamo che ne verremo fuori. Basta guerra, morte. Vogliamo tornare a vivere. Guardati intorno, non senti in televisione, nei caffè, quanti cantanti nuovi, canzoni gioiose, spuntano come i funghi nel bosco, abbiamo voglia di ascoltare, di essere felici. Ne abbiamo diritto!».
I RAID RUSSI
L’esercito preceduto dal martello infuocato dell’aviazione russa ha respinto ribelli e jihadisti dalle montagne di Latakia e sta scendendo verso la capitale del Nord. La riconquista di due città sciite, Fuua e Kefraya, dopo tre anni, tre anni! di assedio gli apre la via verso Bab al-Awa, già sotto bombardamento, e la frontiera turca da cui passano tutti i rifornimenti e i traffici islamisti, mentre un’altra mano della tenaglia sale per avvolgere la città. Al centro della formidabile corona di eserciti che vengono stringendole addosso una spirale inesorabile, Aleppo dovrebbe cadere come un frutto troppo maturo, da sé, staccandosi dolcemente dall’albero della guerra. Un colonnello che ho incontrato sulla via mi ha annunciato, categorico: «Due, tre settimane e Aleppo cadrà.».
Sotto il cielo di un bell’azzurro marino scarrettano soffiando rabbiosamente i proiettili, striano l’aria di rapidi acuti stridori. Lontano in controluce i settori bombardati ribollono di sciarpe e di colonne di fumo azzurro scuro.
UNA LEZIONE ALLA TURCHIA
Umiliare la Turchia strappando il legame territoriale con il Grande Gioco siriano e fare presto, fare presto: «Dobbiamo arrivare al 25 febbraio a Ginevra con le carte migliori, decisive per la battaglia diplomatica. E quale asso è migliore di Aleppo?», aggiunge il colonnello.
Pesanti proiettili inarcano la loro traiettoria a tale altezza che il volo risuona solo come un respiro. So che da qualche parte, di là, nei quartieri ribelli, bandiere di polvere si innalzano a pioggia, si abbattono sulla terra come se crollasse una montagna. Ma questa volta non le vedo.
Il ragazzo che mi porta ad Aleppo si chiama Shadi. A lui mi lega qualcosa che non possiamo dimenticare, più forte del sangue e dell’amicizia: anche lui è stato prigioniero dei jihadisti, a Homs, gli hanno strappato i denti con una tenaglia, ma è vivo, siamo vivi. In questa terra variata, ineguale, piena di capricci e di improvvisate, tutta colline, gobbe, valloncelli, dune, selle, ordinata o selvaggia, abbiamo scoperto che potevamo avere ancora mille e mille vite e che in fondo eravamo rinati, diventati immortali. Un dono che può concedere solo il dio del dolore.
LA CAMPAGNA VIVA
Con Shadi al volante dunque io andavo verso Aleppo, dopo duecento chilometri di argille e rocce in cui si sdraia pigra, maligna, la disperata solitudine di piatte praterie di gialla gramigna, pochi alberi poche case, dopo Homs, è bella campagna, comparsi il cipresso, prati di foraggio e di cavoli, e la vite che sempre è compagna dei cristiani. E l’ulivo. Eravamo felici, Shadi e io, di queste foglie benedette che ci parevano di buon augurio nel cuore della guerra.
La strada scendeva dai colli molle come una sciarpa, faceva piegoni alle curve, imboccava rettilinei infiniti. A destra e a sinistra, nel vuoto, piccoli fortini di terra, dietro cui spuntava il collo di un cannone o di un carro armato. E soldati che stendevano pigri la biancheria al sole o preparavano il pasto. Sull’asfalto strisciavano come scarabei interminabilmente, colonne e colonne di autocarri scortati. I rifornimenti che tengono in vita Aleppo.
LA BARRIERA DI ASSAD
Questa rotabile, chiusa all’altezza di Idlib, l’autostrada che un tempo in un amen ti portava ad Aleppo, è la Maginot di Bashar, ci si è aggrappati, come a una diga, per fermare l’avanzata dalla pianura desertica dell’Est degli uomini del califfato che cercavano di innaffiarla di esplosivo e di ferro: tenere aperta la vena che lega la capitale e Aleppo. Una guerra feroce, silenziosa, senza telecamere e medaglie che si combatte da anni, ogni notte.
Bisogna correre svelti qui, Shadi, perché le pattuglie del califfo e di al-Nusra ti guardano e perfino il ronzio dell’auto basta a svegliare i fucili dei cecchini. E a sinistra, laggiù, c’è Sadura che è nella mani degli islamisti. Ci fermiamo in uno dei fortini, ad Aseria, dove in un container, c’è il comando del generale. Ha una bella stufa calda, il generale, e tacchini e galline nel cortile che beccuzzano placide in mezzo a capitelli e avanzi di colonne, meravigliosi reperti romani. Grida al telefono perché i suoi mezzi hanno problemi di benzina e devono invece correre a tappar le smagliature che gli altri cercano tenacemente di infilare nella sua lunghissima rete.
KAMIKAZE COME ARTIGLIERIA
«È la guerra delle colline, questa, ogni piccola altura è decisiva, chi tiene e sta in alto è padrone del territorio e della strada. Loro sono ben armati, e usano i kamikaze come artiglieria per aprirsi la via. Qualche volta ci hanno sorpreso, sono anche riusciti a interrompere per un po’ la strada, ma poi li abbiamo cacciati. E ogni notte si ricomincia.».
Sul vento, da Est, ci arriva il fragore secco dei colpi, una sorta di abbaiamento rabbioso, nutrito, implacabile.
Attenzione! Qui bisogna svoltare a sinistra. La strada che corre dritta porta a Raqqa, la capitale del califfato: cinquanta chilometri! Appena. Adesso i segni della guerra si fanno largo imperiosi, macchie fuligginose di incendi, pozze scavate dalle granate, relitti di ferraglie. I fili delle linee elettriche pendono a terra come rami recisi. E i villaggi, i curiosi trulli di argilla e canne, appaiono insaccati su se stessi, altri tagliati a fette, altri ancora come morsicati da una enorme bocca feroce. La campagna è gonfia di silenzio e di sole. Rari contadini nei campi, chini sulla terra con una timidezza dolente e circospetta. Qualche mandorlo è coperto di una nevicatina rada, tutti fiocchi bianchi: la prima fioritura nel cuore dell’inverno. Il grande lunghissimo lago che costeggia la strada ha ai bordi sottili bave bianche di sale.
INIZIA LA BATTAGLIA
Ecco Al-Safirah: sono ad Aleppo, in cifra tonda, venti chilometri. Ora l’orizzonte appare nerastro, opaco, orizzonte da tifone, una densa acre caligine annebbia per chilometri i pianori. Brucia la centrale elettrica a gasolio che dà luce ad Aleppo e che l’esercito sta cercando di strappare dalle mani dei jihadisti. Dietro la curva il vento porta il lezzo di una immensa discarica dove decine di bambini scavano silenziosi. Calano sulla città bianca, sfiorando gli edifici, i bagliori rossi dei traccianti che si accendono e sfumano a intervalli regolari. La battaglia di Aleppo è cominciata.